Vent’anni fa, in coda alle poste, una signora aveva notato la mia faccia pulita, così disse, e mi consegnò un biglietto da visita per fare un colloquio. Nel breve scambio, aggiunse: “sai, ti ho visto così, senza piercing, senza tatuaggi, mi sembri un bravo ragazzo”.
Poi non se ne fece nulla, del lavoro, perché all’epoca ero ancora un liceale e la priorità di famiglia era il diploma e poi l’università. Niente distrazioni, nemmeno che prevedessero un guadagno (magari avrei fatto un’altra vita, chissà).
Io non sono mai stato un tipo da tatuaggi, eppure oggi ne conto sette sul mio corpo e come direbbe qualcuno “non esiste l’ultimo tatuaggio”: a volte leggo una frase, vedo un disegno, penso ad un evento della mia vita e mi dico “questo me lo tatuerei”. Mi piace, parecchio, l’idea che sulla mia pelle ci siano disegni e scritte che mi aiutino a raccontare la mia vita, sarà che sono timido all’accesso e i tatuaggi aiutano ad aprire dei discorsi, a fare conversazione.
Aiutano a comunicare e a darsi un tono di voce.
Comunicare, già: a ben vedere la storia umana, il tatuaggio è una delle prime forme di comunicazione, un’estensione dei pittogrammi e dei geroglifici che studiamo alle elementari. Il primo uomo tatuato dovrebbe esser stato Otzi, rinvenuto nel 1991 sulle Alpi, e vissuto oltre cinquemila anni fa. Otzi però si era praticato i suoi tatuaggi con carbone polverizzato, in corrispondenza di alcune ferite da taglio, si pensa quindi che fosse un modo per lenire il dolore e non – ancora – un’usanza estetica. Per avvicinarci a forme di tatuaggio simili a quelle moderne dobbiamo spingerci in Egitto, nel 2000 a.C, per arrivare, passando dalle divinità celtiche alle croci cristiane dei crociati, alle popolazioni di Tahiti, ai Maori, ai nativi del Sud Est Asiatico da cui i marinai europei trassero ispirazione per quella che, due secoli dopo, si sarebbe trasformata in una moda occidentale.
E moda non è mica una brutta parola.
Il mio tatuatore – Ricky, li ho fatti tutti da lui – scrive, a proposito, che i tatuaggi sono un po’ come la moda per i vestiti, come le ricette in cucina: non si tratta solo di mettersi qualcosa addosso per coprirsi, o di far da mangiare per sopravvivere, ma di creare qualcosa.
Arte è la parola magica, emozioni, quelle che dall’arte scaturiscono. Quelle sensazioni da pelle d’oca quando ascoltiamo la “nostra canzone”, l’adrenalina che entra in circolo quando giochiamo o guardiamo il nostro sport preferito, i brividi che proviamo quando creiamo qualcosa, che sia una poesia o un disegno. L’arte del tatuaggio sguazza dentro questo mondo, sia per il tatuatore che crea sogni di altri, sia per chi poi si trova un disegno indelebile sulla pelle. Un vestito prima dei vestiti, moda appunto, qualcosa che, ogni volta che lo rivediamo, ci ricorda un momento vissuto, una persona cara, un gesto, una parola.
I tatuaggi fissano i ricordi e dicono agli altri che quell’inchiostro significa qualcosa di importante, così importante da passare ore di dolore più o meno acuto per fissarcelo sul corpo.
Quando ripenso a quella signora in coda alle poste mi chiedo, ora, perché mi avesse giudicato per l’assenza di tatuaggi. Se mi vedesse oggi cambierebbe opinione su di me, e anche se non ho tatuaggi molto visibili quando sono vestito, le vorrei rispondere “no guardi signora, che ho sette tatuaggi e forse ne farò ancora, e non si permetta di giudicarmi per questo”. Perché se i tatuaggi se li fanno anche le “brave persone”, gli impiegati, i signor nessuno, i blogger, e non solo i criminali e i calciatori, forse possono diventare un modo, uno strumento, un veicolo per combattere i pregiudizi.
E su questo blog ci piace un casino combattere i pregiudizi e aumentare il livello di tolleranza presente nel mondo; dunque voglio scriverlo, con un punto esclamativo in fondo evviva i tatuaggi, evviva i tatuatori, evviva i tatuati!
Crediti Immagine: Ricky Piaggio – Dream Makers Tattoo Studio, Genova (Paperinik è sul mio addome!)