Goteborg, Stadio Ullevi, 9 Maggio 1990.
Sì, trent’anni fa, un arbitro svizzero, Bruno Galler, giudicò regolare un intervento di Gianluca Vialli, centravanti della Sampdoria, che a prima vista avrebbe potuto essere considerato falloso. Vialli sembrò proprio strappar via il pallone dalle mani del portiere, ma lo fece, in effetti, in modo del tutto regolare. Quel gol valeva una Coppa delle Coppe, una delle tre competizioni internazionali dell’epoca.
L’azione si svolse velocemente, Galler era distante e con l’ausilio del guardalinee dovette agire d’istinto, valutando quel frame in pochi secondi.
Un episodio del genere, oggi, lo si definisce da VAR. Uno dei tanti monitor sopra i quali appoggiamo ormai le nostre vite, le nostre abitudini, i nostri giorni.
Mi guardo intorno, è l’una di notte, e ho tre schermi accesi. Quello del portatile che sto usando per scrivere questo post, lo smartphone a fianco, appoggiato sul divano, e la tv sul canale di Rai Sport (sì, ho appena rivisto i supplementari di Goteborg, mi sono emozionato e mi è partita la scimmia di dover scrivere qualcosa a tema).
Questa vita, che era già fatta più di schermi che di finestre, dal contemporaneo d.C. (non è blasfemia, è il dopo Covid) ha i contorni rettangolari e le facce di led. E cuffie, cuffie, cuffie e auricolari a volontà.
Smart working, home schooling, video chat, disney plus. Suona come un testo rap, se il rap esistesse ancora. Anche chi non ha mai smesso di lavorare, penso ai medici, ai corrieri, ai commessi dei supermercati, avrà senza dubbio visto aumentare la propria quota di schermi e cuffie.
Oggi i migliori amici diventano gli youtuber, e di colleghi di cui prima non conoscevamo nulla, se non il nome, ora sappiamo com’è fatta la loro cucina, con chi vivono, e se hanno un cane o un gatto.
Gli schermi di questa nuova vita non sono fatti solo di led. E’ risorto il plexiglass, tutti i negozianti e gli operatori bancari e postali – qualora non lo fossero già – si sono dovuti schermare, hanno aggiunto un altro filtro che ce li fa vedere sotto un’altra luce, non diretti, più distanti.
La distanza vocale l’abbiamo introiettata già da tempo, abbiamo abbandonato le telefonate per far spazio a whatsapp. Ora si aggiunge la distanza fisica, la spesa drive-in, le consegne dei pacchi contactless, e menomale che nei pacchi troviamo ancora la merce, e non un biglietto con scritto “stai a casa”.
Gli psicologi – e ne sono certo, anche qualche Università del New Jersey o del Michigan – stanno studiando gli effetti di queste nuove modalità di vita sull’imprinting dei bambini sotto i sei anni. Se siete genitori con bambini in quella fascia d’età, fate finta di non aver letto e non andate oltre.
C’è chi giura che i bimbi cresciuti in questo “periodo Covid” impareranno a socializzare a distanza, e accetteranno questo modo di essere e di comportarsi come una regola da rispettare sempre. Per loro sarà più difficile tornare a quella che noi chiamiamo la vita di prima, perché per loro non è di fatto esistita, quella vita. I bambini che formano oggi i primi ricordi impareranno ad aver paura di uscire e di avere contatti con le altre persone.
Questo è ciò che dicono alcuni. Vedremo. Credo che un certo distanziamento sociale fosse già in atto in molte occasioni familiari, pensate ai bambini al ristorante col tablet in mano e avrete un’idea abbastanza chiara di ciò che intendo.
Io da bambino ho i ricordi di una Sampdoria che vinceva qualcosa ogni anno, ma a distanza di trent’anni sono ancora un tifoso appassionato. Coi cambiamenti si può convivere.
Si può rimanere fedeli ad una squadra di calcio anche se non vince più, e si potrà tornare ad abbracciarsi anche se, quando accadrà, non ci ricorderemo bene come fare, saremo impacciati, e forse avremo, ancora, da qualche parte, una vocina che ci dirà di stare attenti.
Ma correremo il rischio, tra uno schermo e l’altro.