La domanda (non) è stupida.
Quando Pablito segnava ai mondiali con la maglia azzurra, la mia generazione era appena nata. Io lo ero letteralmente, avevo otto mesi. I mondiali quelli dell’ottantadue li conosco per sentito dire, c’è una foto di Pertini che mi ha sempre affascinato, perché i nostri padri hanno, o avevano, crepe nel cuore ripensando a quegli anni. Si direbbe una stagione felice, un periodo prosperoso, lucente. L’Italia del calcio (e non solo) sul tetto del mondo, un Presidente a cui tutti o quasi volevano bene (non è vero, non del tutto, ma questo ci passa la Storia), un economia potente.
Ma io, e così molti tra coloro che mi leggono, non ho ricordi miei, perché a quei tempi stavamo muovendo i nostri primi passi nel mondo.
Non mi sono fatto raccontare abbastanza di quegli anni, da chi c’era, e questa è una colpa. Posso rimediare, se si tratta degli anni Ottanta, ma per tutto ciò che è accaduto prima? Non ho più nonni, li ho avuti a disposizione per tanto tempo e non li ho usati come avrei potuto, non li ho spremuti, non ho tirato fuori abbastanza dalle loro memorie.
Oggi abbiamo Google e non serve più tenere a mente qualcosa. Mettiamo su Calendar anche quando facciamo i bisogni. Ma un tempo, che meraviglia! Quanto coraggio e volontà avevano le persone nel custodire i pensieri, i ricordi, i fatti. Certo, non avevano seicento pin, password e codici da memorizzare, ma nemmeno uno straccio di post-it per appuntarsi un impegno. Il cervello non smetteva mai di funzionare, oggi lo mettiamo in standby ogni volta che accendiamo Netflix.
Per sapere chi è Paolo Rossi mi basta aprire youtube, o un qualsiasi coccodrillo, chissà se qualche giornalista lo aveva già pronto, per lui, o per Diego, o per tutti quelli che il 2020 si è portato via. E chissà se i figli e nipoti di Pablito lo hanno interrogato sui suoi tempi, non solo quelli dell’incanto spagnolo o del suo Pallone d’oro, ma sui suoi tempi da bambino, un ragazzino degli anni Sessanta.
Proprio Rossi, nella sua autobiografia, scrive:
«L’ho scritto perché i miei tre gol al Brasile, in quel fantastico, indimenticabile tre a due, sono il fiore all’occhiello della mia vita di calciatore. Un ricordo che non si cancellerebbe neanche a distanza di un milione di anni».
Non è vero. Tra un milione di anni, anzi tra molti meno, già adesso, il ricordo di quella tripletta comincerà a svanire.
Se in Italia dici Mondiali molti ormai pensano a Grosso, a Del Piero, a “CANNAVARO!” urlato da Caressa.
Fino a ieri sera i “Rossi” nei nostri cervelli erano questi due.

Paolo Pablito Rossi è stato un eroe del calcio, un’icona del nostro Paese. Il 2020 si porta via lui e i prossimi anni si porteranno via, piano piano, una generazione, quella a cui dobbiamo fare domande, perché è l’ultima dell’era pre-informatica.
Gli ultimi che sono cresciuti dandosi appuntamento dal telefono con la ruota, se non di persona, o chiamando da una cabina pubblica.
Gli ultimi che sanno aggiustarsi quasi tutto da soli, gli ultimi che hanno cominciato a lavorare a quattordici anni se non c’erano i soldi o se andavano male a scuola – perché una volta, tanto tempo fa, se andavi male a scuola venivi addirittura bocciato o “rimandato a Settembre” (e anche questo è un ricordo che comincia a svanire).
Paolo Rossi era un nonno: i nonni sono gli ultimi hard disk viventi.
Quest’anno tanti nonni e bisnonni se li è portati via il covid. Quanti ricordi non domandati, con loro, quante esperienze non tramandate. Per non trovarsi a chiedere “chi era Paolo Rossi”, non perdiamo mai l’occasione di fare una domanda sul passato. Fino a noi, la nostra Storia è arrivata così, tramandata dalle generazioni precedenti, e questa attitudine la stiamo un po’ buttando via.
Intanto c’è Alexa a dirmi chi era Paolo Rossi, no?