L’Italia ha vinto l’Europeo, il secondo della sua storia.
Curioso come non si debba specificare quale squadra, in quale sport, abbia vinto.
Mondiali ed Europei esistono in tutte le principali competizioni sportive internazionali, ma in Italia l’Italia è quella del calcio. Lo è anche per chi di solito non saprebbe spiegare il fuorigioco, o rispondere alla domanda “in che squadra gioca Donnarumma”.
Perché l’azzurro ha questo potere.
Fatto salvo i bastian contrari che a turno (lo sono stato anche io, in passato, e me ne pento) vogliono distinguersi snobbando la Nazionale, se non addirittura gufandola; al netto di questa drastica minoranza, l’azzurro ha il potere di unire il Paese sotto la bandiera tricolore, le urla e i canti dentro ai piedi dei Baggio, dei Totti, dei Del Piero, e oggi dei Verratti e degli Insigne.
Non è una prerogativa italiana, ma sento di poter dire che, grazie anche ad una tradizione vincente, in Italia il calcio è vissuto in un modo diverso da tutti gli altri Paesi. Siamo quelli che più si avvicinano alla tradizione sudamericana, dove il pallone, quello della strada, sta alla base della piramide. Un bisogno primario, inscindibile dalla vita sociale, anzi perno di essa.
Il calcio è il nostro circo, e agisce soprattutto dove e quando manca il pane. Eppure serve. Eccome, se serve. Ci sono già i giornali finanziari a dirvi quanto la vittoria di un Europeo può incidere sul PIL e sull’Export, dunque non ve lo spiegherò io, anche perché non ne sarei in grado. Mi limito a ricordare la felicità che ho visto nelle facce di chi con me ha esultato sul rigore decisivo, i meme, le battute che hanno invaso le nostre chat nei giorni successivi, gli sfottò agli inglesi (e prima ancora alle illustri cadute agli ottavi, Francia e Germania). Questi momenti servono, sono indispensabili, lo dice la scienza, sono produttori di dopamina, l’ormone della felicità.
Il calcio, non di meno, avvicina i governanti alla gente.
Draghi, abilmente spettinato, che nel suo discorso si rivolge in romanesco a Donnarumma.
E Mattarella che esulta a mani aperte e ci ricorda Pertini.
Oggi guardiamo il discorso del Capo dello Stato rivolto ai campioni d’Europa – e al finalista di Wimbledon, Berrettini, non dimentichiamolo – e sorridiamo con lui.
Ridiamo come quei due ex ragazzacci, i gemelli del gol diventati Uomini, vincenti in campo, vincenti fuori. Mancini e Vialli hanno raccolto una Nazionale incenerita e ben oltre l’orlo di una crisi di nervi, e l’hanno portata in cima all’Europa. Nel catino di Wembley, ricostruito, non più il vecchio Wembley, ma pur sempre quel posto sulla cartina geografica in cui 29 anni fa Luca e il Mancio persero la finale di Coppa dei Campioni, con una maglia che non era azzurra, ma blucerchiata.
Circenses, felicità e dopamina guardandoli fare le boccacce, rappresentanti dell’Amicizia, un sentimento talvolta più profondo e denso di significati dell’Amore.
Circenses, dopo un anno e mezzo di pandemia e di poco panem.
Eppure ne avevamo bisogno, eccome.