La tigre dei Balcani

Sinisa Mihajlovic è nato a Vukovar il 20 febbraio 1969. Aveva 22 anni quando la sua Stella Rossa alzò la Coppa dei Campioni, mentre la Jugoslavia da lì a poco non sarebbe più comparsa sui libri di storia come nazione unica, ma come teatro spezzettato, tinto di sangue e coperto di bombe durante la Guerra dei Balcani. Un disastro fatto di razzismo, odio a comando, manipolazioni, genocidi. Sull’altare della storia i serbi fanno la parte dei cattivi, eppure Mihajlovic ha sempre sostenuto, rivendicato e mai nascosto la sua amicizia con il braccio destro di Milosevic, la Tigre delle tigri, Željko Ražnatović, alla Storia Arkan, soprannome preso in prestito, secondo la versione romanzata, da una tigre di un fumetto.

Su Arkan, Sinisa è molto chiaro, definitivo:

«Arkan era un mio amico: lui è stato un eroe per il popolo serbo.Era un mio amico vero, era il capo degli ultras della Stella Rossa quando io giocavo lì. Io gli amici non li tradisco né li rinnego. Conosco tanta gente, anche mafiosi, ma non per questo io sono così. Rifarei il suo necrologio e tutti quelli che ho fatto per altri».

Mihajlovic, che è stato una tigre in campo e lo è adesso, dalla panchina, può parlare di quella guerra senza filtri, perché l’ha vista da dentro, anche se la sua rimarrà ad ogni modo una visuale soggettiva, come quella di chiunque altro. Ma in un mondo di voltagabbana, egli ha ragione su un punto: in guerra spesso è difficile distinguere tra buoni e cattivi. E’ pericoloso ammetterlo, ma è una visione condivisa anche da alcuni giornalisti e reporter che sui Balcani hanno investito il proprio tempo, le proprie risorse, facendo inchiesta dentro quei posti, tra quelle colline, andando a scoprire cosa ancora si dice, e si sa, di una guerra forse mai del tutto sopita. Uno di questi reporter è Christopher Stewart, autore di uno dei libri che fanno parte dei consigli per la lettura che fornisco quando mi vengono richiesti (e anche deliberatamente).
Arkan la tigre dei Balcani, questo il titolo, è un viaggio di Stewart dentro la Serbia post-bellica – e nelle sue parole, nelle righe del testo, si percepisce l’odore della paura nel fare domande a volte scomode. Un libro acceso, cupo e nitido, una perla della narrativa storica. Arkan non è di certo mitizzato, è trattato per il lucido e dirompente sanguinario che era, un comandante di una struttura paramilitare che aveva il compito di supportare Milosevic nella corsa alla supremazia slava da parte del popolo serbo. Eppure, nelle righe di Stewart si sente l’eco di un’avvertenza, una voce che racconta come in quei Balcani non esistano santi, e gli innocenti sono mischiati, fanno parte di un unico popolo, spaccato da un odio improvviso, soffiato dalla politica e da chi ha voluto rinfocolare vecchi bruciori che il comandante Tito era stato in grado di controllare. Scintille sparse trasformate in granate, famiglie che da un giorno all’altro presero a sputarsi in faccia, diventando esegesi del peggior razzismo, quello etnico. Stewart racconta un Arkan da serie tv, l’Arkan capo ultras e quello che sbarca col suo yacht al casinò di Sanremo. Sprezzante, indomito, spocchioso. Un nemico della democrazia e della società civile. Ma un nemico che aveva da vivo, e ha ancora, un manipolo di persone che trovano per lui parole di rispetto.

E’ per quest’uomo che Mihajlovic ha riaffermato in più occasioni, convintamente, la sua amicizia. Perché anche i peggiori criminali hanno rapporti umani, hanno il loro contorno di stima, di parenti, frequentano persone che li apprezzano. Mihajlovic, all’epoca, era un ragazzino dal sinistro potentissimo a cui è capitata una guerra addosso, di cui si è liberato grazie al calcio e forse grazie anche all’amicizia di Arkan. Col suo piede ha fatto le fortune di Roma, Sampdoria, Lazio e Inter. Lui le bombe le sparava col mancino. Da allenatore è sempre riuscito a tirar fuori la grinta dei suoi, gli occhi della tigre, formando squadre a sua misura, combattive, aggressive, temerarie. Tutte caratteristiche che ora ritroviamo in quel Mihajlovic che sta vincendo la sua battaglia contro la leucemia. Quello che un tempo molti razzisti da stadio chiamavano zingaro, oggi è il simbolo della lotta contro il Male, quel tipo di male che ride di fronte all’eugenetica, che può prendere chiunque in qualsiasi momento. E forse è proprio su questo piano che Mihajlovic ha impostato la sua lotta. Alla pari. Lui contro il tumore, a viso aperto, con lo sguardo da duro, a testa alta.

Per me il 2019 è stato l’anno di Sinisa Mihajlovic, è il mio uomo copertina del Times, anzi di questa Palla di Carta: siamo stati tutti con lui, e proprio lui ci ha ricordato di non essere l’unico a soffrire, e ha rivolto parole superbe a quelli che si son trovati il Male in casa. Ha raccontato le sue lacrime e la sua disperazione, ma anche la sua voglia di vivere. E io posso dire con orgoglio che proprio lui, Sinisa, è stato il mio primo vero idolo calcistico: era mancino come me e arrivò alla Sampdoria quando mi trasformai da bambino a tifoso, nel 1994. E’ stata la mia prima figurina attaccata al muro, la mia prima maglietta. Sapevo poco delle sue idee politiche, sapevo nulla o quasi della guerra che si stava combattendo a due passi da noi. Solo molti anni dopo mi interessai ai Balcani come teatro di sangue, ed ebbi l’occasione di conoscere il libro di Stewart. Eppure, ancora oggi, non riesco a guardare il lato politico e tremendo di Mihajlovic. Io vedo solo un ex-calciatore, un allenatore che ho sempre ammirato e che durante il decorso della malattia ha voluto condividere il suo approccio vincente, il suo spirito.

Oggi quindi Miha è un vero zingaro, nel senso che è davvero di tutti, e la sua storia ha segnato l’anno che sta finendo, traguardando i confini sportivi e dell’agone politico. Il suo volto che lotta contro la leucemia ha fatto il giro del mondo, le sue interviste sono diventate lezioni da riguardare più volte, le sue parole insegnamenti che non si trovano sui libri.

Anche questo, mi sembra chiaro, è Comunicazione: se dovessi scegliere come comunicare ad un malato quale sia lo spirito con cui affrontare il Male, io gli racconterei la storia di Sinisa Mihajlovic.

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