Ci hanno provato, prima e dopo, a trasportare l’archetipo del serial killer su pellicola, a disegnare un protagonista lucido e cattivo, a caratterizzare un personaggio che trasmetta inquietudine solo con lo sguardo.
Il cinema, talvolta pescando dalla narrativa, ha donato agli spettatori tanti cattivi, tanti antagonisti spaventosi, brutali, sanguinari, ma nessuno mai potrebbe scalzare l’icona del genere, l’Hannibal che ha portato il primo, unico e forse ultimo Oscar a Anthony Hopkins, alla sua ventiduesima prova cinematografica.
Il doctor Lecter si presenta agli spettatori dietro il vetro della sua cella, in piedi, nella sua tuta verde acqua, stessa tonalità degli occhi, alla sua sinistra i suoi dipinti, di fronte a lui Clarice Starling ovvero Jodie Foster, una ragazzina, una recluta, curiosa e maldestramente intimorita come chi sta guardando il film. I minuti d’esordio una volta visti non si dimenticano più, il dialogo pacato, glaciale, condotto fin dalle prima battute da Hannibal The Cannibal, palesa la sua cultura, la sua proprietà di linguaggio, segna la distonia tra le raccomandazioni ricevute da Clarice (“non avvicinarti al vetro”) e ciò che appare e accade. Noi lo sappiamo che l’agente Starling al vetro si avvicinerà (è la prima cosa che le chiede Lecter, ovviamente!) per mostrare il suo cartellino, ma intuiamo che il doctor Lecter non le farà mai del male, e per mai intendiamo per tutta la loro vita, anche in un eventuale sequel.
Perché, dunquem Hannibal Lecter fa paura? Perché sappiamo che è un cannibale? Perché ha ucciso? Perché è l’unico detenuto rinchiuso dietro un vetro e non in una cella normale?
No.
Il doctor Lecter ci fa paura perché il suo modo di porsi con Clarice è da subito cordiale e paternalista. Il suo tono di voce è pacifico. Vediamo un uomo di esperienza che descrive il suo dipinto di Firenze, che legge la vita dell’agente Starling come se la conoscesse fin da bambina, partendo dal suo profumo. Di Hannibal ci fa paura la sua intelligenza, il sue acume. Ci fa paura vedere che un mostro mangia uomini può nascondersi dietro alle sembianze di un dottore, di un professore, di un uomo che, in libertà, faceva lo psichiatra e il criminologo, mentre divorava le sue vittime “con un piatto di fagioli e un buon Chianti”, e durante il fiero pasto, “la frequenza cardiaca non superava i sessantacinque battiti”.
Ed Anthony Hopkins? Come ha fatto a portare sullo schermo questa Paura? Come si preparato? E ancora: come ha fatto a vincere un Oscar con una performance che sommando i minuti totali di comparsa a schermo, dura meno di 25 minuti (24 minuti e 52 secondi per la precisione)?
Potremmo dire che Hopkins nell’economia del film raggiunge un grado di perfezione difficilmente riscontrabile altrove. Nessun movimento e nessuna parola è concessa alla pura estetica. Ogni sillaba è funzionale, ogni contrazione di muscolo, ogni occhiata. La sua figura muove un film di due ore che è sezionato nei suoi momenti chiave proprio dall’ingresso in scena del suo personaggio: il primo dialogo da il via alla caccia a Buffalo Bill, e nei successivi incontri viene perfezionata la mappa del serial killer, fino alla sua cattura. Le due scene che aprono e chiudono l’epilogo – l’evasione di Lecter e l’ultima telefonata, evidenziano il dualismo del personaggio, mostruoso nella sua lucidità e quasi tenero nel salutare e ringraziare la piccola Clarice (“il mondo è più interessante se tu ci sei”), ricordandole però che la sua fame non si è placata (“sto per avere un vecchio amico per cena, stasera”).
Nell’ultima battuta, prima del clic della cornetta, si schianta di fronte a noi il vero motivo per cui Hannibal Lecter ci ha fatto paura: perché sa anche farci ridere. Perché durante il film abbiamo pensato che il nemico non fosse lui, abbiamo – quasi – tifato per lui.
Hannibal The Cannibal è il Male che si nasconde dietro le apparenze, nella sua veste più subdola e letale.
Eppure, mentre i titoli di coda scorrono, quasi ci rendiamo conto di non essere dispiaciuti per la sua evasione, e nemmeno per la sua prossima vittima…